Non lascia lividi, non alza le mani. La violenza economica incatena lentamente la libertà, pezzetto a pezzetto, con il controllo maniacale di una spesa, il divieto di lavorare, la firma estorta su un prestito. È la forma più subdola di abuso contro le donne, eppure una delle meno riconosciute, un carcere senza sbarre costruito nell’intimità delle mura domestiche. Se n’è discusso a Perugia, nell’aula 3 del Dipartimento di Giurisprudenza, nel terzo e ultimo appuntamento del 2025 promosso da Adoc Umbria con la collaborazione di Uil Umbria.
I numeri presentati dagli esperti fotografano un’Italia spaccata da una disuguaglianza radicale: una donna su tre non dispone di un conto corrente personale e oltre il 40 per cento dichiara di subire forme di controllo o esclusione nelle decisioni economiche familiari. Dati che raccontano come il lavoro - spesso precario, mal pagato e discontinuo - sia diventato la linea di confine tra autonomia e dipendenza, tra una vita propria e una vissuta all’ombra di qualcun altro.

Il quadro tracciato dai relatori è un concentrato di asimmetrie sociali che preparano il terreno agli abusi. Miriam Sartini, direttrice della filiale perugina della Banca d’Italia, ha posto l’accento sul nodo cruciale: la partecipazione femminile al mondo del lavoro in Umbria si attesta al 58%, inferiore alla media nazionale già di per sé bassa. “Le questioni da affrontare sono il gender pay gap e il child penalty”, ha spiegato Sartini, “che si affiancano alla scarsità di strutture per l’infanzia e a una frequenza di lavori precari e con bassa remunerazione”. Un terreno fertile dove attecchisce la violenza economica, di cui “le vittime spesso non ne sono consapevoli”.
Una consapevolezza offuscata che Margherita Scalamogna, avvocata e consulente Adoc, ha tradotto in cifre ancora più crude: “In Italia una donna su tre non ha un conto corrente intestato personalmente e di quelle che lo hanno, solo il 58 per cento presenta titolarità esclusiva”. È il segno tangibile di una mancata indipendenza finanziaria di base.
La presidente nazionale di Adoc, Anna Rea, ha definito il fenomeno senza mezzi termini: “La violenza economica è la forma più subdola di violenza contro le donne. Un fenomeno che colpisce il 6% delle donne e che si nutre di controllo e isolamento. Si nasconde dietro il divieto di studiare, di lavorare o nel controllo totale del reddito”. Il compito delle associazioni, per Rea, è chiaro: “Promuovere la consapevolezza: ogni persona ha diritto all’autodeterminazione perché non c’è libertà senza autonomia finanziaria”.

Se la contabilità della privazione è chiara, le strade per uscirne passano necessariamente da un cambio di paradigma culturale e di sistema. Ivana Veronese, segretaria confederale della Uil Nazionale, ha legato indissolubilmente la battaglia contro la violenza economica alla qualità del lavoro femminile. “Il lavoro ha un ruolo fondamentale in questo discorso”, ha sottolineato, ricordando come in Italia solo il 57% delle donne lavori, l’ultimo dato in Europa. “E ci sarebbe da indagare come lavora: un lavoro precario, discontinuo, part-time, sotto-pagato, spesso sottoqualificato rispetto al percorso di studi”.
Tra le vittime di violenza economica, oltre la metà (53,6%) non ha un reddito personale e vive di mantenimento familiare, una condizione che cementa la dipendenza. “Non possiamo sperare di contrastare e prevenire efficacemente la violenza economica se non agiamo sulla principale leva per la libertà e l’indipendenza delle donne: il lavoro. Un lavoro dignitoso, di qualità”, ha affermato Veronese. Una visione condivisa da Maurita Lombardi, presidente di Liberamente Donna, che ha evidenziato come la violenza economica, spesso combinata ad altre forme di abuso, “può avere una risposta solo nel momento in cui ci si affianca ad altre forme di welfare solidale”.

L’incontro, moderato dalla presidente di Adoc Umbria Marina Conti e con i contributi dell’avvocata Beatrice Chioccioni per la Fondazione Umbria contro l’usura e del segretario generale Uil Umbria Maurizio Molinari, ha quindi messo nero su bianco una verità scomoda. La violenza economica non è un dramma privato, ma un fenomeno sociale strutturale che si combatte con l’educazione finanziaria, con servizi di welfare capaci di sostenere l’occupazione femminile, e soprattutto, riconoscendo che quel controllo sulle spese o quel conto corrente cointestato per forza non sono normalità, ma il primo, silenzioso mattone di una prigione.