Un intero pezzo di tessuto sociale ed economico si sta sfilacciando, negozio dopo negozio, in una regione dove la dimensione della comunità ha da sempre un valore fondativo. Tra il 2009 e il 2024, l’Umbria ha visto chiudere i battenti quasi 2.000 esercizi commerciali in sede fissa, un crollo del 15,9% che supera la già critica media nazionale (-13,4%) e che nella provincia di Terni assume i contorni di un vero e proprio tracollo. Mentre supermercati e discount consolidano la loro egemonia, a scomparire sono soprattutto i piccoli negozi di vicinato, le botteghe alimentari, le attività storiche dei centri urbani. Un processo di “selezione competitiva” che, secondo l’analisi dell’Agenzia Umbria Ricerche (AUR), non è solo una questione di efficienza di mercato, ma una lenta erosione del capitale sociale, dell’occupazione diffusa e dell’accessibilità ai servizi per le fasce più fragili, in particolare nelle aree interne.
I numeri del focus AUR, curato dal dirigente di programma Mauro Casavecchia e dalla responsabile dell’area “Processi e trasformazioni economiche e sociali” Elisabetta Tondini, dipingono una trasformazione strutturale profonda e irreversibile. Alla fine del 2024 gli esercizi al dettaglio in Umbria sono 10.310, con il 73,4% concentrati nella provincia di Perugia. Ma è la dinamica a fare paura: la flessione è stata particolarmente marcata nella provincia di Terni e, a livello settoriale, ha colpito con violenza il commercio non specializzato a prevalenza alimentare, crollato del 28,5% in regione, con un picco nella provincia di Perugia.

“La dinamica riflette fattori ormai strutturali: crescente pressione competitiva della grande distribuzione, processi di razionalizzazione del micro-retail, mutamento delle abitudini di acquisto e maggiore penetrazione dei canali digitali”, spiegano Casavecchia e Tondini. Il tradizionale negozio di alimentari, il generico di quartiere, soccombe sotto i colpi di modelli di consumo polarizzati. Da un lato la spesa “full service” nei grandi supermercati, dall’altro la spesa quotidiana e difensiva nei discount, che hanno saputo ritagliarsi un ruolo di prossimità.
Il comparto alimentare specializzato racconta una storia di luci e ombre. I segmenti tradizionali del fresco – macellerie, pescherie, fruttivendoli, panifici artigianali – registrano contrazioni rilevanti. “Coerenti con la concentrazione della domanda in un numero minore di punti vendita e con l’espansione di supermercati e discount che assumono sempre più funzioni di prossimità”, sottolineano i ricercatori AUR. Resiste, anzi cresce, il settore delle bevande e alcune nicchie alimentari, probabilmente trainato da format ibridi e nuove catene. Sorprende la tenuta, anzi l’incremento, dei tabacchi, “meno esposti alla concorrenza online e sostenuti da nuovi comportamenti di consumo”.
Tra i non alimentari, il quadro è altrettanto differenziato e spietato. Il settore dominante, l’abbigliamento e calzature, pur rappresentando ancora il 17,8% del totale, si ridimensiona in linea con i modelli di consumo che favoriscono le grandi catene e il fast fashion, oltre alla concorrenza agguerrita dell’e-commerce. Crollano gli articoli per la casa e, ancor di più, il comparto culturale e ricreativo: edicole e cartolerie sono tra le più penalizzate dalla distribuzione alternativa. Un segnale positivo arriva dalle librerie, che nella provincia di Perugia registrano un’espansione, a dimostrazione che l’esperienza culturale fisica resiste all’assalto del digitale.

“In un quadro di dinamiche settoriali sostanzialmente analogo a quello nazionale, l’Umbria si caratterizza per un calo degli esercizi non specializzati con prevalenza alimentare più che doppio rispetto a quello italiano”, fanno notare gli analisti. È il cuore del problema: la regione perde pezzi di quel tessuto commerciale generalista e familiare che per decenni ha garantito servizio, relazione e presidio del territorio. Il processo è sistemico: “La rete commerciale non si limita a contrarsi, ma si ricompone: diminuiscono le attività più tradizionali e aumentano o si stabilizzano le specializzazioni più dinamiche o più in linea con i nuovi comportamenti di consumo”.
Al di là delle fredde percentuali, il focus AUR lancia un allarme chiaro sulle conseguenze sociali e territoriali di questa emorragia. Il ridimensionamento non è neutro: colpisce al cuore i centri storici, i piccoli comuni e le aree interne. “Il progressivo calo dei negozi di prossimità – alimentari, panifici, macellerie, edicole – compromette innanzitutto l’accessibilità ai servizi essenziali”, avvertono Casavecchia e Tondini. Per anziani, persone con mobilità ridotta o senza auto, acquistare il pane o il giornale diventa un’impresa, aumentando il rischio di isolamento e di dipendenza da servizi non sempre accessibili.
Si delinea così il pericolo di una “desertificazione commerciale”, un vuoto che non è solo economico. I negozi di vicinato svolgono una funzione relazionale insostituibile: sono presìdi di socialità, punti di incontro, termometro della comunità. La loro chiusura genera un effetto domino negativo: locali sfitti, minore frequentazione delle piazze, degrado percepito, perdita di identità urbana. “La loro chiusura contribuisce al degrado dei centri storici… erodendo così l’identità urbana”, scrivono i ricercatori.
Sul piano economico, il danno è altrettanto grave. La scomparsa delle micro-imprese familiari, spesso gestite da generazioni, significa indebolimento dell’imprenditoria diffusa, perdita di posti di lavoro locali, minori ricadute sulle filiere corte. Il valore aggiunto si concentra nelle mani di pochi grandi operatori, spesso esterni al territorio, impoverendo la capacità della regione di generare ricchezza endogena. La selezione del mercato, in questo caso, sta producendo un paesaggio commerciale più efficiente forse per i consumatori mobili e connessi, ma drammaticamente più povero e fragile per intere comunità e per il futuro stesso della coesione sociale in Umbria.