In Umbria le aziende non falliscono. Semplicemente, scompaiono. Chiudono i battenti non perché siano in perdita o non competitive, ma perché non c’è nessuno, alla fine, che voglia o possa raccoglierne l’eredità. È una crisi silenziosa, più insidiosa di un dissesto finanziario, che sta prosciugando il tessuto produttivo di una regione che, con i suoi numeri in chiaroscuro, si sta rivelando un laboratorio anticipatore dei nodi irrisolti del capitalismo delle PMI italiane.
Sette cifre, fornite dalla Camera di Commercio dell’Umbria, disegnano il ritratto di un sistema che fatica a rigenerarsi. Quasi 91mila imprese in una regione sotto il milione di abitanti, un saldo demografico d’impresa che oscilla intorno allo zero, titolari più anziani della media nazionale e un export costruito senza grandi navi ammiraglie. I dati raccontano di un’economia fatta di micro-realtà solide e longeve, dove il pericolo non è il tracollo, ma l’estinzione per assenza di ricambio generazionale. Un problema che, partendo dal cuore verde d’Italia, riguarda da vicino l’intero Paese.
Il primo numero che colpisce è la densità: 90.440 imprese attive al 30 settembre 2025 in una regione di 865mila abitanti. Un tessuto produttivo fittissimo, tipicamente umbro e del Centro Italia, dove ogni singola unità ha un peso specifico elevato sull’occupazione e sulle filiere locali. In un contesto così compatto, la chiusura di un’attività non si perde nella statistica, ma risuona nell’economia del territorio, lasciando un vuoto difficile da colmare.
La dinamica delle nascite e delle morti d’impresa conferma una sostanziale staticità. Nel 2024, con 4.260 iscrizioni e 4.595 cessazioni, il saldo è stato negativo di 335 unità. Nel corso del 2025 il segno è tornato debolmente positivo, ma l’andamento oscilla intorno allo zero, segno di un sistema che non crolla ma nemmeno cresce in modo strutturale. "Ciò che rende l’Umbria un caso interessante - spiega Giorgio Mencaroni, presidente della Camera di Commercio dell’Umbria - è che le politiche non si fermano alle imprese già strutturate, ma raggiungono concretamente anche quelle sotto i dieci addetti".

È qui che si misura l’efficacia dell’azione camerale: strumenti operativi, già attivi, che accompagnano le microimprese nei percorsi di digitalizzazione, organizzazione e innovazione, rendendo accessibili opportunità che altrove restano fuori portata. Questo lavoro quotidiano, spesso poco visibile, incide sulla tenuta e sull’evoluzione del tessuto produttivo reale». Un intervento che prova a tappare le falle di un sistema dove, a differenza del Nord (trainato da imprese più capitalizzate) o del Sud (sostenuto da una natalità più vivace), mancano entrambe le spinte sostitutive.
Il cuore del problema batte nell’anagrafe degli imprenditori. In Umbria, oltre il 34% dei titolari ha più di 55 anni, una quota superiore alla media nazionale (31%). All’estremo opposto, gli under 35 rappresentano meno del 9% del totale, a fronte di un dato Italia che si avvicina all’11%. È lo specchio di un ricambio generazionale che non avviene, un blocco che sta portando alla scomparsa di saperi e attività.
Il settore simbolo di questa erosione è l’artigianato, pilastro identitario della regione. Nell’ultimo anno, le imprese artigiane guidate da under 35 sono crollate del 40,7%, passando da 2.282 a solo 1.354 unità. Una contrazione drammatica, più netta che in molte regioni del Nord e non compensata da nuove aperture come accade in parte al Mezzogiorno. Quando in Umbria chiude una bottega artigiana, sparisce un pezzo di storia, di competenza e di futuro, senza che nessuno ne raccolga gli attrezzi.
Il paradosso è che queste non sono imprese fragili. La stragrande maggioranza sono microimprese attive da oltre vent’anni, che hanno superato la crisi finanziaria, la pandemia e lo shock energetico. Sono realtà solide, ma ipertroficamente dipendenti dal loro fondatore. Competenze, clienti, fornitori: tutto ruota attorno alla figura del titolare. Il rischio, quindi, non è la sopravvivenza economica nel breve, ma la continuità operativa nel momento del passaggio. Un modello che, seppur dominante in Umbria, è sempre più diffuso in tutta Italia.

Non tutti i dati, però, parlano di stasi. Negli ultimi dieci anni, le imprese umbre attive nell’e-commerce sono aumentate del 204,7%, un balzo superiore a quello di Toscana e Marche. La base di partenza era esigua, ma la direzione è chiara. Nel 2024, inoltre, le domande umbre ai bandi del PNRR sono cresciute del 27%, e ben il 62% è stato presentato da imprese sotto i 50 addetti. Segno che anche le realtà più piccole cercano di agganciare il treno dell’innovazione.
L’export, pur rappresentando solo lo 0,9% del totale nazionale (4,37 miliardi di euro nei primi nove mesi del 2025), racconta di un modello originale: un sistema di subfornitura e lavorazioni di qualità, costruito senza grandi corporation capofila. Un mini-modello Nord Italia, ma su scala micro, e quindi più fragile alla scomparsa di un singolo anello della catena.
"È in questa capacità di arrivare dove normalmente le politiche non arrivano - conclude Mencaroni - che l’Umbria diventa un laboratorio concreto per il sistema delle PMI". La regione, il cui PIL nel 2024 è cresciuto dello 0,7% in linea con la media italiana, non è in recessione. E proprio per questo la sua lezione è cruciale: perdere imprese sane per mancanza di eredi non è una fatalità economica, ma uno spreco di capitale umano, sociale e produttivo. L’Umbria mostra oggi ciò che molte altre realtà italiane, fatte di capitalismo diffuso e imprese a conduzione familiare, scopriranno domani: la sfida non è solo far nascere nuove imprese, ma far sopravvivere, cambiando pelle, quelle che già ci sono e che funzionano.