Un'immagine che non volevamo vedere: una targa dedicata a Ilaria Sula, affissa su una sedia d'aula, su cui campeggiava un cartello con parole semplici ma potenti: "uccisa per femminicidio". E proprio quella parola, "femminicidio", qualcuno l’ha cancellata con un tratto di penna. È successo pochi giorni fa, dentro un’aula dello Studium 6 dell’Università del Salento.
Una scritta che voleva ricordare una giovane vita spezzata brutalmente, una studentessa che avrebbe dovuto essere anche lei, tra i banchi dell'università pronta per prepararsi alla sessione estiva. E invece, quella memoria è stata ferita, di nuovo.
Ilaria Sula è una delle tante vittime di femminicidio. Un crimine preciso, che ha un nome, e che in troppi ancora fanno fatica a pronunciare.
Il cartello era stato affisso dall’Università del Salento in memoria di Ilaria Sula, una studentessa di 22 anni che all’università di Roma (Sapienza) studiava Statistica. Ilaria è stata brutalmente uccisa dall’ex fidanzato nel marzo 2025 e il suo corpo è stato ritrovato in una valigia.
L’Ateneo salentino aveva dedicato un posto in aula alla sua memoria (insieme a quello di un’altra giovane vittima, Sara Campanella) per sensibilizzare gli studenti contro la violenza di genere. Cancellare con un tratto di penna proprio la parola "femminicidio" è stato interpretato come un gesto simbolico, che dimostra quanto ancora dia fastidio, a certi ambienti, pronunciare la parola "femminicidio". Così facendo, si svuota di significato l’intento commemorativo e si nega la verità dei fatti.
Il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’UniSalento ha subito reagito con una dura condanna. In una nota ufficiale ha espresso "sconcerto e ferma disapprovazione" per l’accaduto, definendolo "un gesto che offende la memoria di Ilaria Sula e di tutte le vittime di violenza, e contrasta profondamente con i valori di rispetto, inclusione e responsabilità civile" promossi dall’ateneo.
Il Dipartimento ha ribadito che "la lotta contro ogni forma di violenza di genere è per noi un impegno concreto, non solo teorico", impegnandosi a continuare iniziative di sensibilizzazione e formazione sui diritti delle donne.
Anche i sindacati studenteschi hanno preso posizione: l’Udu ha ricordato che l’Università aveva voluto sensibilizzare gli studenti proprio con le sedie dedicate a Ilaria Sula e Sara Campanella, giudicando il gesto di imbrattamento "il sintomo di un sistema patriarcale, tossico e oppressivo".
Profonda è stata anche la reazione della famiglia. Il padre di Ilaria, Flamur Sula, ha commentato con dolore: "Mi dispiace per Ilaria, così offendono la sua memoria e quella delle altre ragazze uccise come lei". "Sono senza parole", ha aggiunto con amarezza, "purtroppo in questo mondo esistono anche persone del genere".
Le parole del padre raccolgono lo sgomento di molti: quello sguardo violato sul cartello era proprio ciò che avrebbe dovuto ricordare l’orrore subito da Ilaria. Del gesto si stanno occupando le autorità: al momento non risultano ancora individuati responsabili, e si spera in indagini tempestive.
L’Università ha confermato la propria ferma volontà di continuare a tenere vivo il ricordo della studentessa, ripristinando la scritta e rafforzando le attività di educazione al rispetto e al contrasto della violenza di genere.
Dietro l’episodio si intravede un’importante riflessione sulla memoria delle vittime e sul rispetto dovuto a chi è stato ucciso. Ilaria, anche se studiava a Roma, era stata comunque accolta nel cuore dell’UniSalento come simbolo di una realtà che ancora oggi tanti faticano ad affrontare: quella della violenza contro le donne. La sua storia parla a tutte e tutti, indistintamente.
Proprio per questo la rimozione del termine "femminicidio" ha colpito particolarmente: cancellando quelle lettere, il gesto ha offeso non solo la memoria di Ilaria, ma anche di tutte le donne vittime di violenza.
In Italia, dedicare spazi alla memoria delle vittime serve a rompere il silenzio su questi crimini e a riconoscere il loro carattere specifico. Ogni volta che la memoria viene oltraggiata, si rischia di banalizzare la sofferenza delle vittime. Dobbiamo dunque riflettere: mantenere vivi i loro nomi significa anche impedire che le loro morti vengano dimenticate o negate.
Ci troviamo davanti a qualcosa che va oltre il vandalismo. Un gesto come questo, che ferisce la memoria di una giovane uccisa, ci racconta molto di più: ci racconta un Paese che ancora oggi fa fatica a guardare in faccia la realtà dei femminicidi. Non si tratta di casi isolati, lo sappiamo bene. È una mentalità profonda, antica, che si alimenta di ignoranza, di silenzi, di chi gira lo sguardo dall’altra parte.
E c’è un rifiuto che grida forte: il rifiuto di chiamare le cose con il loro nome. Perché cancellare la parola "femminicidio" non è solo un atto vandalico. È voler riscrivere la storia. È voler dire che quel crimine non è mai esistito. È voler negare la violenza subita da tante, troppe donne.
Quando persino rappresentanti delle istituzioni arrivano a dire che la violenza di genere "non appartiene alla nostra cultura", dobbiamo fermarci e chiederci: ma allora, a quale cultura apparteniamo davvero? Perché se questa non è la nostra cultura, allora perché ogni anno continuiamo a contare le vittime?
La verità è che la battaglia contro i femminicidi non è solo una questione giudiziaria, ma culturale. Serve educazione, serve memoria, serve il coraggio di guardare in faccia una realtà scomoda. Perché solo così possiamo impedire che Ilaria e tante altre vengano dimenticate. O, peggio, cancellate con un colpo di penna.