Un copione da manuale della truffa, consumato all’ombra del Palazzo di giustizia di Perugia: promettere scorciatoie, millantare poteri che non si hanno, chiedere denaro in cambio di un presunto “aiuto”. La Corte d’appello ha confermato la responsabilità di un’operatrice giudiziaria per tentata estorsione e corruzione ai danni del titolare di una piccola impresa di pulizie. Secondo i giudici, la donna avrebbe abusato della propria qualifica di pubblico ufficiale per costruire un inganno semplice e pericoloso.
La vicenda nasce da un gesto controcorrente: dopo aver consegnato i 300 euro richiesti, il titolare di una piccola impresa di pulizie si è presentato agli inquirenti e ha denunciato tutto. Da lì sono partiti gli accertamenti, le audizioni, i riscontri. Il percorso è approdato a una prima condanna e, ora, alla conferma in appello: per i giudici di Perugia l’operatrice giudiziaria ha abusato della propria funzione, mettendo in scena una compravendita di "protezione" che nulla aveva a che fare con i compiti dell’ufficio.
Il copione si è chiuso al contrario di come era iniziato. L’imprenditore, spaventato dall’ipotesi di ispezioni imminenti e pesanti sanzioni, aveva inizialmente aderito alla richiesta di denaro. Pochi giorni dopo, però, ha raccontato tutto agli investigatori. Le verifiche hanno ricostruito contatti, modalità e promesse, fino alla decisione del Tribunale.
Secondo la ricostruzione riportata da PerugiaToday, l’operatrice – forte della sua quotidiana presenza negli uffici giudiziari – avrebbe prospettato una "vasta operazione" congiunta di Guardia di finanza, Carabinieri e Agenzia delle entrate sulle imprese di pulizie. Per rendere credibile la minaccia, avrebbe parlato di schede aziendali già pronte e della possibilità di spostare il nominativo della vittima in coda, guadagnando tempo per "mettersi in regola". “Ho la lista delle aziende da controllare, se mi dai 300 euro ti metto in fondo, così puoi aggiustare le cose”, avrebbe detto.
Il nucleo probatorio è fondato soprattutto sulle dichiarazioni della persona offesa, che non si è costituita parte civile. La Corte le ha ritenute lineari e prive di incongruenze di rilievo, valorizzando il riconoscimento fotografico effettuato in fase di indagine. Un elemento, questo, affiancato da un ulteriore dettaglio emerso dalle deposizioni: l’imputata si sarebbe presentata come cancelliera, qualifica che non possedeva, accreditandosi così indebiti poteri decisionali sul flusso dei controlli.
Nella motivazione i giudici delineano un quadro in cui la funzione pubblica diventa strumento di pressione: da un lato la minaccia implicita di controlli imminenti; dall’altro l’offerta di un vantaggio illecito – lo slittamento dell’ispezione – in cambio di denaro. È questa saldatura a integrare, secondo la Corte, i due fronti di reato: la tentata estorsione (la pretesa economica veicolata attraverso la prospettazione di un male ingiusto) e la corruzione (la dazione di denaro per ottenere un indebito favore). La condanna in primo grado è stata confermata in appello; eventuali ulteriori valutazioni restano affidate a possibili impugnative in Cassazione.
In termini generali, la tentata estorsione si configura quando qualcuno cerca di costringere un’altra persona a consegnare denaro o altra utilità prospettando un danno ingiusto. La corruzione, invece, riguarda l’accordo illecito in cui denaro o utilità sono promessi o dati al pubblico ufficiale per compiere o omettere un atto dovuto o per compierne uno contrario ai doveri. Nel caso in questione le due dimensioni si intrecciano: la finta "protezione" dalla verifica amministrativa, offerta in cambio di 300 euro, e l’uso della qualifica pubblica per rendere credibile la proposta.
Il caso perugino lascia un’indicazione netta. Per chi fa impresa: nessuna scorciatoia è innocua, e ogni richiesta di denaro in cambio di "aiuti" va segnalata subito alle autorità. Per la pubblica amministrazione: il presidio sull’integrità è un investimento reputazionale, oltre che un dovere. È anche grazie alla denuncia della vittima che la macchina della giustizia ha potuto intervenire, riaffermando un principio semplice: i controlli si fanno per legge, non si rinviano a pagamento.