Secondo il teologo eugubino Luigi Girlanda, la nascita di Cristo non è un episodio isolato, ma la risposta a secoli di attesa biblica. Dall’alleanza con Abramo alla promessa a Davide, passando per Mosè fino alle parole ardenti dei profeti, soprattutto Isaia e Daniele, tutto converge verso quel Bambino: “Secoli di attesa si concentrano in questo Bambino”, sottolinea l’analisi.
Isaia invoca un Dio che squarci i cieli e scenda, profetizza una vergine che concepisce e un bambino con titoli divini. Daniele annuncia perfino il tempo esatto della venuta del Messia, chiamandolo “Figlio dell’uomo”. Profezie che sembravano impossibili da conciliare in un’unica persona, ma che – evidenzia Girlanda – trovano compimento pieno in Gesù: nato dalla stirpe di Davide, a Betlemme come annunciato, re glorioso ma anche servo sofferente, crocifisso e risorto.
Un identikit umano e divino, storicamente situato, che porta il lettore a una domanda inevitabile: se le profezie coincidono, se la storia conferma, se gli eventi sono verificabili, chi è davvero quel Bambino?

Girlanda richiama con forza il cuore della fede cristiana: l’Incarnazione. Non una metafora, non un mito, non un racconto edificante.
“Quel Bambino che piange nella mangiatoia è Dio”, afferma con vigore l’autore, ribadendo l’insegnamento della tradizione e dei Concili: Gesù è vero Dio e vero uomo, uniti in una sola Persona.
L’Incarnazione, si sottolinea, ha una ragione precisa: la salvezza dell’uomo. Solo qualcuno che fosse contemporaneamente Dio e uomo poteva riparare la frattura infinita del peccato e restituire all’umanità la possibilità della vita eterna. Un Dio che non rimane distante, ma entra nella storia, assume la nostra fragilità, sceglie la via umile di una mangiatoia per conquistare i cuori.
Ma quel Bambino non è venuto a creare unanimità. È segno di contraddizione, “pietra di inciampo”, come profetizzato da Simeone nel Tempio.
“Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti”, ricorda Girlanda. Davanti a Cristo non esiste neutralità: occorre scegliere. Da qui la durezza evangelica che l’autore non nasconde: Cristo divide tra chi accoglie e chi rifiuta, tra chi crede e chi rigetta. Subito dopo Natale, non a caso, la Chiesa celebra Santo Stefano, primo martire: segno che la fede non è romanticismo, ma anche testimonianza e sacrificio.
Questa divisione attraversa la storia e arriva fino ai nostri giorni.
Girlanda offre anche una lettura critica della modernità. La civiltà occidentale – nata da Cristo – oggi tenta di vivere senza di Lui. Elimina Dio dal diritto, dalla cultura, dalla morale, e finisce per dissolversi.
“Le nostre sedicenti democrazie senza Dio diventano tirannidi… la libertà senza Legge diventa schiavitù”, evidenzia l’analisi.
Una riflessione che suona come monito: come Israele non riconobbe il Messia, così oggi l’Occidente sembra rifiutare il Cristo che l’ha generato.
Uno degli aspetti più significativi del testo è la difesa della ragionevolezza della fede cristiana. L’Incarnazione non è affidata al mito o alla fantasia, ma poggia su documenti storici, testimonianze verificabili, riscontri archeologici e scritturistici.
“Dio si è degnato di lasciarci delle prove”, sottolinea Girlanda, opponendosi all’idea di una fede irrazionale o puramente emotiva. Non salti nel vuoto, ma una ragione illuminata che riconosce la credibilità dei fatti.
È la fede come atto libero e consapevole, fondato su verità storica, non su suggestioni.
L’analisi si chiude con una forte chiamata personale. Quel Bambino non è solo un ricordo natalizio: è presenza viva che ancora interroga.
“Quel Bambino nella mangiatoia ci aspetta ancora… con la stessa domanda: Voi chi dite che io sia?”
La risposta, afferma Girlanda, decide la nostra vita e la nostra eternità. Cristo rimane l’unica porta, l’unica via, l’unica salvezza. Non per imposizione, ma come offerta d’amore.

L’articolo di Luigi Girlanda è, in definitiva, una meditazione potente, radicata nella Scrittura e nella tradizione, capace però di parlare con lucidità al presente. Un invito a tornare al centro del Natale, a riconoscere che quel Bambino non rappresenta poesia religiosa, ma una sfida reale, una proposta di verità e salvezza.
Un percorso che chiede coraggio, ragione, fede. E una decisione. Perché, come sottolinea l’autore, “non c’è felicità più autentica che stare con quel Bambino”.