Viviamo in un’epoca segnata da un’escalation di violenza contro le donne, un fenomeno che non conosce tregua e che, troppo spesso, viene etichettato come "tragedia isolata". Ma i numeri, i fatti e il dolore non mentono: in Italia si muore ancora perché si è donne. E sempre più spesso. L’ultimo orrore arriva da Afragola, comune dell’hinterland napoletano, dove una ragazza di appena 14 anni è stata uccisa a colpi di pietra dal fidanzato 19enne. Un delitto che lascia sgomenti, ma che non può più sorprendere, perché si inserisce in un quadro che è ormai strutturale, sistemico, e che chiama la società intera a un’assunzione di responsabilità.
Qualche mese fa, a Terni, fu il caso di Ilaria Sula, brutalmente assassinata a Roma dall’ex compagno, che poi ne occultò il corpo in una valigia, gettandolo in un dirupo. Due vite spezzate, due nomi che si aggiungono alla lunga lista di donne uccise da chi avrebbe dovuto amarle. E con loro, il silenzio assordante di un Paese che ancora fatica a riconoscere la radice culturale di questo genocidio sommerso.
Un grido accorato, senza filtri, quello lanciato in queste ore da Vittoria Ferdinandi, sindaca di Perugia e delegata ANCI alle Pari Opportunità. Le sue parole, affidate a un video pubblicato su Facebook, sono diventate virali e stanno alimentando un necessario dibattito pubblico.
“Il femminicidio è figlio di una cultura, di un modello culturale e sociale, che si chiama patriarcato e non è possibile che il nostro Paese sia più spaventato dal femminismo che dal femminicidio. È un modello culturale che va destrutturato pezzo dopo pezzo”, ha affermato la sindaca.
Non è una dichiarazione qualunque. È un atto politico, un invito a smettere di chiamare “mostro” l’ennesimo carnefice e di trattare ogni omicidio di una donna come un evento straordinario.
“Ci stanno ammazzando come le mosche”, denuncia Ferdinandi, con una rabbia lucida e consapevole. “Allora è giusto che con molta rabbia e con molta determinazione questa società ricominci a scegliere da che parte mettere la colpa, che non può più essere dalla nostra parte”.
Per la sindaca di Perugia, è finito il tempo delle lacrime e delle frasi di circostanza. Occorre passare dalla resilienza alla resistenza:
“Questo non è più il tempo della resilienza, è quello della resistenza, che significa una forza che rimanda indietro quello che deve essere rimandato indietro e noi dobbiamo cominciare a rimandarlo indietro con forza, opponendoci a ogni forma di sopraffazione e di potere che è la radice su cui poi nasce la violenza di genere”.
Ferdinandi individua nella scuola uno degli snodi decisivi per il cambiamento culturale. Perché se è vero che la famiglia ha un ruolo fondamentale, da sola non basta.
“Dobbiamo entrare nelle scuole, perché le famiglie non possono essere l'unico soggetto deputato. Dobbiamo agire prima che la cultura del possesso e della sopraffazione si radichi nelle coscienze”.
Le parole di Ferdinandi squarciano il velo di ipocrisia che spesso accompagna i commenti istituzionali e mediatici. Basta con il racconto di vicini “scioccati”, di famiglie “sconvolte”, di assassini “insospettabili”.
“Non è una tragedia, non è una sciagura, non possiamo come istituzioni e come società affrontare un fenomeno così pervasivo e ricorrente ogni volta con lo stupore della prima volta. 'Era tanto un bravo ragazzo, non ce lo saremmo mai aspettato'. Non c'è più niente di cui scioccarsi. Queste sono tutte forme di resistenza con cui la nostra società cerca di rimandare il dolore di questo fenomeno”.
Il femminicidio, come denuncia la sindaca, non nasce ai margini della società, ma si annida nel suo cuore. È il prodotto diretto di un sistema in cui il maschio detiene ancora un potere implicito e violento sul corpo, sulla libertà e sulla vita delle donne.
“Questi sono stati giorni terribili. Finché una donna continuerà a essere uccisa perché donna - perché di questo si tratta, nonostante la fatica e le resistenze che fanno i nostri organi di stampa e la nostra società - finché ci sarà anche solo una donna uccisa perché donna, non ci daremo pace. Non ci daremo pace come istituzioni e non ci daremo pace in quanto donne”.