Una notte lunga e tesa, che ha visto gli agenti della Polizia Penitenziaria di Perugia impegnati in un’operazione di controllo all’interno del carcere di Capanne. Un blitz durato oltre dodici ore, dalle 14 del pomeriggio del 24 settembre fino alle prime luci del mattino successivo, che ha portato al sequestro di sei smartphone completi di SIM. Una scoperta che getta nuova luce sull’emergenza sicurezza nelle carceri italiane, dove la tecnologia penetra dietro le sbarre diventando strumento di contatti illeciti e potenziale minaccia per l’ordine pubblico.
L’operazione, condotta con estrema precisione, non è stata un semplice controllo di routine. In uno dei casi, infatti, un telefono è stato rinvenuto addirittura negli scarichi, nascosto con tale astuzia da richiedere l’intervento di personale specializzato. Un segnale che testimonia quanto il fenomeno sia radicato e difficile da arginare.
Il sequestro dei sei dispositivi è il risultato di una perquisizione straordinaria che ha coinvolto diverse sezioni della Casa Circondariale di Capanne. L’operazione è stata resa nota dal sindacato Sappe, che in un comunicato ha espresso grande apprezzamento per l’impegno degli agenti.
Secondo quanto riportato, la Polizia Penitenziaria ha lavorato senza sosta per quasi dodici ore, controllando celle, spazi comuni e persino gli impianti idrici. Proprio negli scarichi è stato individuato uno dei telefoni, un rinvenimento che dimostra sia l’abilità dei detenuti nel nascondere gli apparecchi, sia la meticolosità dei controlli.
Il Sappe ha sottolineato come questi risultati siano frutto di spirito di sacrificio e dedizione, nonostante la cronica carenza di organico che da anni affligge il corpo di Polizia Penitenziaria. Un problema strutturale che rischia di minare la tenuta stessa del sistema penitenziario, chiamato ogni giorno a fronteggiare nuove sfide con risorse sempre più ridotte.
La presenza di telefoni cellulari in carcere non è solo un problema disciplinare: rappresenta una vera minaccia per la sicurezza pubblica, perché consente ai detenuti di mantenere contatti con l’esterno, organizzare traffici illeciti e talvolta intimidire testimoni o familiari. Da qui la necessità di intensificare i controlli e di dotare gli istituti di tecnologie più efficaci per il rilevamento dei dispositivi.
Il sequestro dei sei smartphone arriva a pochi giorni da un altro fatto che ha scosso l’opinione pubblica: il suicidio di una detenuta italiana di 35 anni, affetta da gravi patologie psichiatriche. La donna, condannata per reati legati al traffico di stupefacenti, si è tolta la vita nella sezione femminile del carcere di Capanne, impiccandosi nella sua cella.
Il dramma si è consumato nella mattinata di domenica, sotto gli occhi increduli del personale penitenziario che, nonostante l’intervento immediato, non è riuscito a salvarla. Si tratta dell’ennesimo episodio che riporta al centro del dibattito il disagio mentale dietro le sbarre. Secondo i dati forniti dai sindacati di categoria, i suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno hanno raggiunto quota 61, cinque dei quali riguardano donne. Anche tre operatori penitenziari hanno scelto di togliersi la vita, segno che la pressione psicologica coinvolge tanto i detenuti quanto chi lavora quotidianamente in condizioni di estrema difficoltà.
Le organizzazioni sindacali parlano di una vera emergenza: la patologia psichiatrica tra i detenuti è in aumento, ma l’assistenza resta frammentata e insufficiente. Strutture inadeguate, personale ridotto e la mancanza di programmi specifici di sostegno fanno sì che molti casi restino irrisolti, fino a sfociare in tragedie come quella avvenuta a Perugia.
Il carcere di Capanne, come molti istituti penitenziari italiani, si trova oggi a fronteggiare una duplice emergenza. Da un lato, la sicurezza interna, minacciata dall’ingresso illecito di cellulari, droga e altri oggetti proibiti. Dall’altro, il disagio psichico crescente tra i detenuti, che senza un adeguato supporto si traduce in episodi di autolesionismo e suicidio.